Dante Alighieri
LA DIVINA COMMEDIA
INFERNO
sabato 9 aprile, verso le 9 antimeridiane | cerchio VIII, bolgia VI: luogo abbastanza angusto, ai piedi della parete rocciosa più interna sono ammassate le pietre del ponte crollato. | Catalano de' Malavolti, Loderigo degli Andalò, Caifa, Anna, i membri del Sinedrio | ipocriti: imprigionati dentro enormi cappucci da frate, di pesantissimo piombo rilucente d'oro all'esterno camminano lentamente, calpestando Caifa, Anna (suocero di Caifa) e gli altri membri del Sinedrio, stesi a terra crocifissi con tre pali di legno |
Comincia il canto vigesimoterzo dello Inferno. Nel quale l'autore scrive come, temendo de' demòni, li quali impacciati avean lasciati, Virgilio il ne portò nella sesta bolgia, dove trovarono gl'ipocriti, vestiti di cappe rance. |
Taciti, soli,
sanza compagnia n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo, come frati minor vanno per via. Vòlt’era in su la favola d’Isopo lo mio pensier per la presente rissa, dov’el parlò de la rana e del topo; ché più non si pareggia ’mo’ e ’issa’ che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia principio e fine con la mente fissa. E come l’un pensier de l’altro scoppia, così nacque di quello un altro poi, che la prima paura mi fé doppia. Io pensava così: ’Questi per noi sono scherniti con danno e con beffa sì fatta, ch’assai credo che lor nòi. Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa, ei ne verranno dietro più crudeli che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa’. Già mi sentia tutti arricciar li peli de la paura e stava in dietro intento, quand’io dissi: «Maestro, se non celi te e me tostamente, i’ ho pavento d’i Malebranche. Noi li avem già dietro; io li ’magino sì, che già li sento». E quei: «S’i’ fossi di piombato vetro, l’imagine di fuor tua non trarrei più tosto a me, che quella dentro ’mpetro. Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei, con simile atto e con simile faccia, sì che d’intrambi un sol consiglio fei. S’elli è che sì la destra costa giaccia, che noi possiam ne l’altra bolgia scendere, noi fuggirem l’imaginata caccia». Già non compié di tal consiglio rendere, ch’io li vidi venir con l’ali tese non molto lungi, per volerne prendere. Lo duca mio di sùbito mi prese, come la madre ch’al romore è desta e vede presso a sé le fiamme accese, che prende il figlio e fugge e non s’arresta, avendo più di lui che di sé cura, tanto che solo una camiscia vesta; e giù dal collo de la ripa dura supin si diede a la pendente roccia, che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura. Non corse mai sì tosto acqua per doccia a volger ruota di molin terragno, quand’ella più verso le pale approccia, come ’l maestro mio per quel vivagno, portandosene me sovra ’l suo petto, come suo figlio, non come compagno. A pena fuoro i piè suoi giunti al letto del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle sovresso noi; ma non lì era sospetto; ché l’alta provedenza che lor volle porre ministri de la fossa quinta, poder di partirs’indi a tutti tolle. Là giù trovammo una gente dipinta che giva intorno assai con lenti passi, piangendo e nel sembiante stanca e vinta. Elli avean cappe con cappucci bassi dinanzi a li occhi, fatte de la taglia che in Clugnì per li monaci fassi. Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia; ma dentro tutte piombo, e gravi tanto, che Federigo le mettea di paglia. Oh in etterno faticoso manto! Noi ci volgemmo ancor pur a man manca con loro insieme, intenti al tristo pianto; ma per lo peso quella gente stanca venìa sì pian, che noi eravam nuovi di compagnia ad ogne mover d’anca. Per ch’io al duca mio: «Fa che tu trovi alcun ch’al fatto o al nome si conosca, e li occhi, sì andando, intorno movi». E un che ’ntese la parola tosca, di retro a noi gridò: «Tenete i piedi, voi che correte sì per l’aura fosca! Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi». Onde ’l duca si volse e disse: «Aspetta e poi secondo il suo passo procedi». Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta de l’animo, col viso, d’esser meco; ma tardavali ’l carco e la via stretta. Quando fuor giunti, assai con l’occhio bieco mi rimiraron sanza far parola; poi si volsero in sé, e dicean seco: «Costui par vivo a l’atto de la gola; e s’e’ son morti, per qual privilegio vanno scoperti de la grave stola?». Poi disser me: «O Tosco, ch’al collegio de l’ipocriti tristi se’ venuto, dir chi tu se’ non avere in dispregio». E io a loro: «I’ fui nato e cresciuto sovra ’l bel fiume d’Arno a la gran villa, e son col corpo ch’i’ ho sempre avuto. Ma voi chi siete, a cui tanto distilla quant’i’ veggio dolor giù per le guance? e che pena è in voi che sì sfavilla?». E l’un rispuose a me: «Le cappe rance son di piombo sì grosse, che li pesi fan così cigolar le lor bilance. Frati godenti fummo, e bolognesi; io Catalano e questi Loderingo nomati, e da tua terra insieme presi, come suole esser tolto un uom solingo, per conservar sua pace; e fummo tali, ch’ancor si pare intorno dal Gardingo». Io cominciai: «O frati, i vostri mali...»; ma più non dissi, ch’a l’occhio mi corse un, crucifisso in terra con tre pali. Quando mi vide, tutto si distorse, soffiando ne la barba con sospiri; e ’l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse, mi disse: «Quel confitto che tu miri, consigliò i Farisei che convenia porre un uom per lo popolo a’ martìri. Attraversato è, nudo, ne la via, come tu vedi, ed è mestier ch’el senta qualunque passa, come pesa, pria. E a tal modo il socero si stenta in questa fossa, e li altri dal concilio che fu per li Giudei mala sementa». Allor vid’io maravigliar Virgilio sovra colui ch’era disteso in croce tanto vilmente ne l’etterno essilio. Poscia drizzò al frate cotal voce: «Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci s’a la man destra giace alcuna foce onde noi amendue possiamo uscirci, sanza costrigner de li angeli neri che vegnan d’esto fondo a dipartirci». Rispuose adunque: «Più che tu non speri s’appressa un sasso che de la gran cerchia si move e varca tutt’i vallon feri, salvo che ’n questo è rotto e nol coperchia: montar potrete su per la ruina, che giace in costa e nel fondo soperchia». Lo duca stette un poco a testa china; poi disse: «Mal contava la bisogna colui che i peccator di qua uncina». E ’l frate: «Io udi’ già dire a Bologna del diavol vizi assai, tra ’ quali udi’ ch’elli è bugiardo, e padre di menzogna». Appresso il duca a gran passi sen gì, turbato un poco d’ira nel sembiante; ond’io da li ’ncarcati mi parti’ dietro a le poste de le care piante. |
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sabato 9 aprile, verso le undici antimeridiane | cerchio VIII, bolgia VII, avvolta da un fitto buio: Dante è costretto a scendere lungo l'argine che la recinge per poter scorgere i dannati. | Vanni Fucci | ladri: nudi e indifesi, tentano di scappare ai morsi e alle strette di un gran numero di serpenti che cinge il loro corpo, bloccandone le mani; sono spogliati della stessa natura umana per mezzo di orribili trasformazioni. |
Comincia il canto vigesimoquarto dello 'Inferno. Nel quale l'autore mostra come trapassasse nella settima bolgia, nella quale trova i ladroni, tormentati variamente da serpi, tra' quali primieramente truova Vanni Fucci, il quale alcuna cosa gli predice. |
In quella
parte del giovanetto anno che ’l sole i crin sotto l’Aquario tempra e già le notti al mezzo dì sen vanno, quando la brina in su la terra assempra l’imagine di sua sorella bianca, ma poco dura a la sua penna tempra, lo villanello a cui la roba manca, si leva, e guarda, e vede la campagna biancheggiar tutta; ond’ei si batte l’anca, ritorna in casa, e qua e là si lagna, come ’l tapin che non sa che si faccia; poi riede, e la speranza ringavagna, veggendo ’l mondo aver cangiata faccia in poco d’ora, e prende suo vincastro, e fuor le pecorelle a pascer caccia. Così mi fece sbigottir lo mastro quand’io li vidi sì turbar la fronte, e così tosto al mal giunse lo ’mpiastro; ché, come noi venimmo al guasto ponte, lo duca a me si volse con quel piglio dolce ch’io vidi prima a piè del monte. Le braccia aperse, dopo alcun consiglio eletto seco riguardando prima ben la ruina, e diedemi di piglio. E come quei ch’adopera ed estima, che sempre par che ’nnanzi si proveggia, così, levando me sù ver la cima d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia dicendo: «Sovra quella poi t’aggrappa; ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia». Non era via da vestito di cappa, ché noi a pena, ei lieve e io sospinto, potavam sù montar di chiappa in chiappa. E se non fosse che da quel precinto più che da l’altro era la costa corta, non so di lui, ma io sarei ben vinto. Ma perché Malebolge inver’ la porta del bassissimo pozzo tutta pende, lo sito di ciascuna valle porta che l’una costa surge e l’altra scende; noi pur venimmo al fine in su la punta onde l’ultima pietra si scoscende. La lena m’era del polmon sì munta quand’io fui sù, ch’i’ non potea più oltre, anzi m’assisi ne la prima giunta. «Omai convien che tu così ti spoltre», disse ’l maestro; «ché, seggendo in piuma, in fama non si vien, né sotto coltre; sanza la qual chi sua vita consuma, cotal vestigio in terra di sé lascia, qual fummo in aere e in acqua la schiuma. E però leva sù: vinci l’ambascia con l’animo che vince ogne battaglia, se col suo grave corpo non s’accascia. Più lunga scala convien che si saglia; non basta da costoro esser partito. Se tu mi ’ntendi, or fa sì che ti vaglia». Leva’mi allor, mostrandomi fornito meglio di lena ch’i’ non mi sentìa; e dissi: «Va, ch’i’ son forte e ardito». Su per lo scoglio prendemmo la via, ch’era ronchioso, stretto e malagevole, ed erto più assai che quel di pria. Parlando andava per non parer fievole; onde una voce uscì de l’altro fosso, a parole formar disconvenevole. Non so che disse, ancor che sovra ’l dosso fossi de l’arco già che varca quivi; ma chi parlava ad ire parea mosso. Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi non poteano ire al fondo per lo scuro; per ch’io: «Maestro, fa che tu arrivi da l’altro cinghio e dismontiam lo muro; ché, com’i’ odo quinci e non intendo, così giù veggio e neente affiguro». «Altra risposta», disse, «non ti rendo se non lo far; ché la dimanda onesta si de’ seguir con l’opera tacendo». Noi discendemmo il ponte da la testa dove s’aggiugne con l’ottava ripa, e poi mi fu la bolgia manifesta: e vidivi entro terribile stipa di serpenti, e di sì diversa mena che la memoria il sangue ancor mi scipa. Più non si vanti Libia con sua rena; ché se chelidri, iaculi e faree produce, e cencri con anfisibena, né tante pestilenzie né sì ree mostrò già mai con tutta l’Etiopia né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe. Tra questa cruda e tristissima copia correan genti nude e spaventate, sanza sperar pertugio o elitropia: con serpi le man dietro avean legate; quelle ficcavan per le ren la coda e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate. Ed ecco a un ch’era da nostra proda, s’avventò un serpente che ’l trafisse là dove ’l collo a le spalle s’annoda. Né O sì tosto mai né I si scrisse, com’el s’accese e arse, e cener tutto convenne che cascando divenisse; e poi che fu a terra sì distrutto, la polver si raccolse per sé stessa, e ’n quel medesmo ritornò di butto. Così per li gran savi si confessa che la fenice more e poi rinasce, quando al cinquecentesimo anno appressa; erba né biado in sua vita non pasce, ma sol d’incenso lagrime e d’amomo, e nardo e mirra son l’ultime fasce. E qual è quel che cade, e non sa como, per forza di demon ch’a terra il tira, o d’altra oppilazion che lega l’omo, quando si leva, che ’ntorno si mira tutto smarrito de la grande angoscia ch’elli ha sofferta, e guardando sospira: tal era il peccator levato poscia. Oh potenza di Dio, quant’è severa, che cotai colpi per vendetta croscia! Lo duca il domandò poi chi ello era; per ch’ei rispuose: «Io piovvi di Toscana, poco tempo è, in questa gola fiera. Vita bestial mi piacque e non umana, sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci bestia, e Pistoia mi fu degna tana». E io al duca: «Dilli che non mucci, e domanda che colpa qua giù ’l pinse; ch’io ’l vidi uomo di sangue e di crucci». E ’l peccator, che ’ntese, non s’infinse, ma drizzò verso me l’animo e ’l volto, e di trista vergogna si dipinse; poi disse: «Più mi duol che tu m’hai colto ne la miseria dove tu mi vedi, che quando fui de l’altra vita tolto. Io non posso negar quel che tu chiedi; in giù son messo tanto perch’io fui ladro a la sagrestia d’i belli arredi, e falsamente già fu apposto altrui. Ma perché di tal vista tu non godi, se mai sarai di fuor da’ luoghi bui, apri li orecchi al mio annunzio, e odi: Pistoia in pria d’i Neri si dimagra; poi Fiorenza rinova gente e modi. Tragge Marte vapor di Val di Magra ch’è di torbidi nuvoli involuto; e con tempesta impetuosa e agra sovra Campo Picen fia combattuto; ond’ei repente spezzerà la nebbia, sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto. E detto l’ho perché doler ti debbia!». |
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sabato 9 aprile, verso mezzogiorno. | cerchio VIII, bolgia VII: avvolta da un fitto buio: Dante è costretto a scendere lungo l'argine che la recinge per poter scorgere i dannati. | Il centauro caco, Agnello Brunelleschi, Cianfa Donati, Buoso Donati, Francesco Cavalcanti, Puccio de' Galigai. | ladri: nudi e indifesi, tentano di scappare ai morsi e alle strette di un gran numero di serpenti che cinge il loro corpo, bloccandone le mani; sono spogliati della stessa natura umana per mezzo di orribili trasformazioni. |
Comincia il canto vigesimoquinto dello 'Inferno. Nel quale l'autore nella sopradetta bolgia mostra come, veduto Caco, vide certi fiorentini trasformati maravigliosamente in diverse forme |
Al fine de le
sue parole il ladro le mani alzò con amendue le fiche, gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!». Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, perch’una li s’avvolse allora al collo, come dicesse ’Non vo’ che più diche’; e un’altra a le braccia, e rilegollo, ribadendo sé stessa sì dinanzi, che non potea con esse dare un crollo. Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi d’incenerarti sì che più non duri, poi che ’n mal fare il seme tuo avanzi? Per tutt’i cerchi de lo ’nferno scuri non vidi spirto in Dio tanto superbo, non quel che cadde a Tebe giù da’ muri. El si fuggì che non parlò più verbo; e io vidi un centauro pien di rabbia venir chiamando: «Ov’è, ov’è l’acerbo?». Maremma non cred’io che tante n’abbia, quante bisce elli avea su per la groppa infin ove comincia nostra labbia. Sovra le spalle, dietro da la coppa, con l’ali aperte li giacea un draco; e quello affuoca qualunque s’intoppa. Lo mio maestro disse: «Questi è Caco, che sotto ’l sasso di monte Aventino di sangue fece spesse volte laco. Non va co’ suoi fratei per un cammino, per lo furto che frodolente fece del grande armento ch’elli ebbe a vicino; onde cessar le sue opere biece sotto la mazza d’Ercule, che forse gliene diè cento, e non sentì le diece». Mentre che sì parlava, ed el trascorse e tre spiriti venner sotto noi, de’ quali né io né ’l duca mio s’accorse, se non quando gridar: «Chi siete voi?»; per che nostra novella si ristette, e intendemmo pur ad essi poi. Io non li conoscea; ma ei seguette, come suol seguitar per alcun caso, che l’un nomar un altro convenette, dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»; per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento, mi puosi ’l dito su dal mento al naso. Se tu se’ or, lettore, a creder lento ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia, ché io che ’l vidi, a pena il mi consento. Com’io tenea levate in lor le ciglia, e un serpente con sei piè si lancia dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia. Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia, e con li anterior le braccia prese; poi li addentò e l’una e l’altra guancia; li diretani a le cosce distese, e miseli la coda tra ’mbedue, e dietro per le ren sù la ritese. Ellera abbarbicata mai non fue ad alber sì, come l’orribil fiera per l’altrui membra avviticchiò le sue. Poi s’appiccar, come di calda cera fossero stati, e mischiar lor colore, né l’un né l’altro già parea quel ch’era: come procede innanzi da l’ardore, per lo papiro suso, un color bruno che non è nero ancora e ’l bianco more. Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno gridava: «Omè, Agnel, come ti muti! Vedi che già non se’ né due né uno». Già eran li due capi un divenuti, quando n’apparver due figure miste in una faccia, ov’eran due perduti. Fersi le braccia due di quattro liste; le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso divenner membra che non fuor mai viste. Ogne primaio aspetto ivi era casso: due e nessun l’imagine perversa parea; e tal sen gio con lento passo. Come ’l ramarro sotto la gran fersa dei dì canicular, cangiando sepe, folgore par se la via attraversa, sì pareva, venendo verso l’epe de li altri due, un serpentello acceso, livido e nero come gran di pepe; e quella parte onde prima è preso nostro alimento, a l’un di lor trafisse; poi cadde giuso innanzi lui disteso. Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse; anzi, co’ piè fermati, sbadigliava pur come sonno o febbre l’assalisse. Elli ’l serpente, e quei lui riguardava; l’un per la piaga, e l’altro per la bocca fummavan forte, e ’l fummo si scontrava. Taccia Lucano ormai là dove tocca del misero Sabello e di Nasidio, e attenda a udir quel ch’or si scocca. Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio; ché se quello in serpente e quella in fonte converte poetando, io non lo ’nvidio; ché due nature mai a fronte a fronte non trasmutò sì ch’amendue le forme a cambiar lor matera fosser pronte. Insieme si rispuosero a tai norme, che ’l serpente la coda in forca fesse, e il feruto ristrinse insieme l’orme. Le gambe con le cosce seco stesse s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura non facea segno alcun che si paresse. Togliea la coda fessa la figura che si perdeva là, e la sua pelle si facea molle, e quella di là dura. Io vidi intrar le braccia per l’ascelle, e i due piè de la fiera, ch’eran corti, tanto allungar quanto accorciavan quelle. Poscia li piè di retro, insieme attorti, diventaron lo membro che l’uom cela, e ’l misero del suo n’avea due porti. Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela di color novo, e genera ’l pel suso per l’una parte e da l’altra il dipela, l’un si levò e l’altro cadde giuso, non torcendo però le lucerne empie, sotto le quai ciascun cambiava muso. Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie, e di troppa matera ch’in là venne uscir li orecchi de le gote scempie; ciò che non corse in dietro e si ritenne di quel soverchio, fé naso a la faccia e le labbra ingrossò quanto convenne. Quel che giacea, il muso innanzi caccia, e li orecchi ritira per la testa come face le corna la lumaccia; e la lingua, ch’avea unita e presta prima a parlar, si fende, e la forcuta ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta. L’anima ch’era fiera divenuta, suffolando si fugge per la valle, e l’altro dietro a lui parlando sputa. Poscia li volse le novelle spalle, e disse a l’altro: «I’ vo’ che Buoso corra, com’ho fatt’io, carpon per questo calle». Così vid’io la settima zavorra mutare e trasmutare; e qui mi scusi la novità se fior la penna abborra. E avvegna che li occhi miei confusi fossero alquanto e l’animo smagato, non poter quei fuggirsi tanto chiusi, ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato; ed era quel che sol, di tre compagni che venner prima, non era mutato; l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni. |
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