Dante Alighieri

LA DIVINA COMMEDIA

INFERNO

 

Canto XXIII

sabato 9 aprile, verso le 9 antimeridiane cerchio VIII, bolgia VI: luogo abbastanza angusto, ai piedi della parete rocciosa più interna sono ammassate le pietre del ponte crollato. Catalano de' Malavolti, Loderigo degli Andalò, Caifa, Anna, i membri del Sinedrio ipocriti: imprigionati dentro enormi cappucci da frate, di pesantissimo piombo rilucente d'oro all'esterno camminano lentamente, calpestando Caifa, Anna (suocero di Caifa) e gli altri membri del Sinedrio, stesi a terra crocifissi con tre pali di legno
Comincia il canto vigesimoterzo dello Inferno. Nel quale l'autore scrive come, temendo de' demòni, li quali impacciati avean lasciati, Virgilio il ne portò nella sesta bolgia, dove trovarono gl'ipocriti, vestiti di cappe rance.
      Taciti, soli, sanza compagnia 
n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo, 
come frati minor vanno per via. 
      Vòlt’era in su la favola d’Isopo 
lo mio pensier per la presente rissa, 
dov’el parlò de la rana e del topo; 
      ché più non si pareggia ’mo’ e ’issa’ 
che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia 
principio e fine con la mente fissa. 
      E come l’un pensier de l’altro scoppia, 
così nacque di quello un altro poi, 
che la prima paura mi fé doppia. 
      Io pensava così: ’Questi per noi 
sono scherniti con danno e con beffa 
sì fatta, ch’assai credo che lor nòi. 
      Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa, 
ei ne verranno dietro più crudeli 
che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa’. 
      Già mi sentia tutti arricciar li peli 
de la paura e stava in dietro intento, 
quand’io dissi: «Maestro, se non celi 
      te e me tostamente, i’ ho pavento 
d’i Malebranche. Noi li avem già dietro; 
io li ’magino sì, che già li sento». 
      E quei: «S’i’ fossi di piombato vetro, 
l’imagine di fuor tua non trarrei 
più tosto a me, che quella dentro ’mpetro. 
      Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei, 
con simile atto e con simile faccia, 
sì che d’intrambi un sol consiglio fei. 
      S’elli è che sì la destra costa giaccia, 
che noi possiam ne l’altra bolgia scendere, 
noi fuggirem l’imaginata caccia». 
      Già non compié di tal consiglio rendere, 
ch’io li vidi venir con l’ali tese 
non molto lungi, per volerne prendere. 
      Lo duca mio di sùbito mi prese, 
come la madre ch’al romore è desta 
e vede presso a sé le fiamme accese, 
      che prende il figlio e fugge e non s’arresta, 
avendo più di lui che di sé cura, 
tanto che solo una camiscia vesta; 
      e giù dal collo de la ripa dura 
supin si diede a la pendente roccia, 
che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura. 
      Non corse mai sì tosto acqua per doccia 
a volger ruota di molin terragno, 
quand’ella più verso le pale approccia, 
      come ’l maestro mio per quel vivagno, 
portandosene me sovra ’l suo petto, 
come suo figlio, non come compagno. 
      A pena fuoro i piè suoi giunti al letto 
del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle 
sovresso noi; ma non lì era sospetto; 
      ché l’alta provedenza che lor volle 
porre ministri de la fossa quinta, 
poder di partirs’indi a tutti tolle. 
      Là giù trovammo una gente dipinta 
che giva intorno assai con lenti passi, 
piangendo e nel sembiante stanca e vinta. 
      Elli avean cappe con cappucci bassi 
dinanzi a li occhi, fatte de la taglia 
che in Clugnì per li monaci fassi. 
      Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia; 
ma dentro tutte piombo, e gravi tanto, 
che Federigo le mettea di paglia. 
      Oh in etterno faticoso manto! 
Noi ci volgemmo ancor pur a man manca 
con loro insieme, intenti al tristo pianto; 
      ma per lo peso quella gente stanca 
venìa sì pian, che noi eravam nuovi 
di compagnia ad ogne mover d’anca. 
      Per ch’io al duca mio: «Fa che tu trovi 
alcun ch’al fatto o al nome si conosca, 
e li occhi, sì andando, intorno movi». 
      E un che ’ntese la parola tosca, 
di retro a noi gridò: «Tenete i piedi, 
voi che correte sì per l’aura fosca! 
      Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi». 
Onde ’l duca si volse e disse: «Aspetta 
e poi secondo il suo passo procedi». 
      Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta 
de l’animo, col viso, d’esser meco; 
ma tardavali ’l carco e la via stretta. 
      Quando fuor giunti, assai con l’occhio bieco 
mi rimiraron sanza far parola; 
poi si volsero in sé, e dicean seco: 
      «Costui par vivo a l’atto de la gola; 
e s’e’ son morti, per qual privilegio 
vanno scoperti de la grave stola?». 
      Poi disser me: «O Tosco, ch’al collegio 
de l’ipocriti tristi se’ venuto, 
dir chi tu se’ non avere in dispregio». 
      E io a loro: «I’ fui nato e cresciuto 
sovra ’l bel fiume d’Arno a la gran villa, 
e son col corpo ch’i’ ho sempre avuto. 
      Ma voi chi siete, a cui tanto distilla 
quant’i’ veggio dolor giù per le guance? 
e che pena è in voi che sì sfavilla?». 
      E l’un rispuose a me: «Le cappe rance 
son di piombo sì grosse, che li pesi 
fan così cigolar le lor bilance. 
      Frati godenti fummo, e bolognesi; 
io Catalano e questi Loderingo 
nomati, e da tua terra insieme presi, 
      come suole esser tolto un uom solingo, 
per conservar sua pace; e fummo tali, 
ch’ancor si pare intorno dal Gardingo». 
      Io cominciai: «O frati, i vostri mali...»; 
ma più non dissi, ch’a l’occhio mi corse 
un, crucifisso in terra con tre pali. 
      Quando mi vide, tutto si distorse, 
soffiando ne la barba con sospiri; 
e ’l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse, 
      mi disse: «Quel confitto che tu miri, 
consigliò i Farisei che convenia 
porre un uom per lo popolo a’ martìri. 
      Attraversato è, nudo, ne la via, 
come tu vedi, ed è mestier ch’el senta 
qualunque passa, come pesa, pria. 
      E a tal modo il socero si stenta 
in questa fossa, e li altri dal concilio 
che fu per li Giudei mala sementa». 
      Allor vid’io maravigliar Virgilio 
sovra colui ch’era disteso in croce 
tanto vilmente ne l’etterno essilio. 
      Poscia drizzò al frate cotal voce: 
«Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci 
s’a la man destra giace alcuna foce 
      onde noi amendue possiamo uscirci, 
sanza costrigner de li angeli neri 
che vegnan d’esto fondo a dipartirci». 
      Rispuose adunque: «Più che tu non speri 
s’appressa un sasso che de la gran cerchia 
si move e varca tutt’i vallon feri, 
      salvo che ’n questo è rotto e nol coperchia: 
montar potrete su per la ruina, 
che giace in costa e nel fondo soperchia». 
      Lo duca stette un poco a testa china; 
poi disse: «Mal contava la bisogna 
colui che i peccator di qua uncina». 
      E ’l frate: «Io udi’ già dire a Bologna 
del diavol vizi assai, tra ’ quali udi’ 
ch’elli è bugiardo, e padre di menzogna». 
      Appresso il duca a gran passi sen gì, 
turbato un poco d’ira nel sembiante; 
ond’io da li ’ncarcati mi parti’ 
      dietro a le poste de le care piante.
 
 

 
 

 
 
9  
 
 
12 
 
 
15 
 
 
18 
 
 
21 
 
 
24  
 
 
27 
 
 
30 
 
 
33 
 
 
36 
 
 
39  
 
 
42 
 
 
45 
 
 
48 
 
 
51 
 
 
54  
 
 
57 
 
 
60 
 
 
63 
 
 
66 
 
 
69  
 
 
72 
 
 
75 
 
 
78 
 
 
81 
 
 
84  
 
 
87 
 
 
90 
 
 
93 
 
 
96 
 
 
99  
 
 
102 
 
 
105 
 
 
108 
 
 
111 
 
 
114 
 
 
117 
 
 
120 
 
 
123 
 
 
126 
 
 
129 
 
 
132 
 
 
135 
 
 
138 
 
 
141 
 
 
144 
 
 
 
148

Canto XXIV

sabato 9 aprile, verso le undici antimeridiane cerchio VIII, bolgia VII, avvolta da un fitto buio: Dante è costretto a scendere lungo l'argine che la recinge per poter scorgere i dannati. Vanni Fucci ladri: nudi e indifesi, tentano di scappare ai morsi e alle strette di un gran numero di serpenti che cinge il loro corpo, bloccandone le mani; sono spogliati della stessa natura umana per mezzo di orribili trasformazioni.
Comincia il canto vigesimoquarto dello 'Inferno. Nel quale l'autore mostra come trapassasse nella settima bolgia, nella quale trova i ladroni, tormentati variamente da serpi, tra' quali primieramente truova Vanni Fucci, il quale alcuna cosa gli predice.
      In quella parte del giovanetto anno 
che ’l sole i crin sotto l’Aquario tempra 
e già le notti al mezzo dì sen vanno, 
      quando la brina in su la terra assempra 
l’imagine di sua sorella bianca, 
ma poco dura a la sua penna tempra, 
      lo villanello a cui la roba manca, 
si leva, e guarda, e vede la campagna 
biancheggiar tutta; ond’ei si batte l’anca, 
      ritorna in casa, e qua e là si lagna, 
come ’l tapin che non sa che si faccia; 
poi riede, e la speranza ringavagna, 
      veggendo ’l mondo aver cangiata faccia 
in poco d’ora, e prende suo vincastro, 
e fuor le pecorelle a pascer caccia. 
      Così mi fece sbigottir lo mastro 
quand’io li vidi sì turbar la fronte, 
e così tosto al mal giunse lo ’mpiastro; 
      ché, come noi venimmo al guasto ponte, 
lo duca a me si volse con quel piglio 
dolce ch’io vidi prima a piè del monte. 
      Le braccia aperse, dopo alcun consiglio 
eletto seco riguardando prima 
ben la ruina, e diedemi di piglio. 
      E come quei ch’adopera ed estima, 
che sempre par che ’nnanzi si proveggia, 
così, levando me sù ver la cima 
      d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia 
dicendo: «Sovra quella poi t’aggrappa; 
ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia». 
      Non era via da vestito di cappa, 
ché noi a pena, ei lieve e io sospinto, 
potavam sù montar di chiappa in chiappa. 
      E se non fosse che da quel precinto 
più che da l’altro era la costa corta, 
non so di lui, ma io sarei ben vinto. 
      Ma perché Malebolge inver’ la porta 
del bassissimo pozzo tutta pende, 
lo sito di ciascuna valle porta 
      che l’una costa surge e l’altra scende; 
noi pur venimmo al fine in su la punta 
onde l’ultima pietra si scoscende. 
      La lena m’era del polmon sì munta 
quand’io fui sù, ch’i’ non potea più oltre, 
anzi m’assisi ne la prima giunta. 
      «Omai convien che tu così ti spoltre», 
disse ’l maestro; «ché, seggendo in piuma, 
in fama non si vien, né sotto coltre; 
      sanza la qual chi sua vita consuma, 
cotal vestigio in terra di sé lascia, 
qual fummo in aere e in acqua la schiuma. 
      E però leva sù: vinci l’ambascia 
con l’animo che vince ogne battaglia, 
se col suo grave corpo non s’accascia. 
      Più lunga scala convien che si saglia; 
non basta da costoro esser partito. 
Se tu mi ’ntendi, or fa sì che ti vaglia». 
      Leva’mi allor, mostrandomi fornito 
meglio di lena ch’i’ non mi sentìa; 
e dissi: «Va, ch’i’ son forte e ardito». 
      Su per lo scoglio prendemmo la via, 
ch’era ronchioso, stretto e malagevole, 
ed erto più assai che quel di pria. 
      Parlando andava per non parer fievole; 
onde una voce uscì de l’altro fosso, 
a parole formar disconvenevole. 
      Non so che disse, ancor che sovra ’l dosso 
fossi de l’arco già che varca quivi; 
ma chi parlava ad ire parea mosso. 
      Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi 
non poteano ire al fondo per lo scuro; 
per ch’io: «Maestro, fa che tu arrivi 
      da l’altro cinghio e dismontiam lo muro; 
ché, com’i’ odo quinci e non intendo, 
così giù veggio e neente affiguro». 
      «Altra risposta», disse, «non ti rendo 
se non lo far; ché la dimanda onesta 
si de’ seguir con l’opera tacendo». 
      Noi discendemmo il ponte da la testa 
dove s’aggiugne con l’ottava ripa, 
e poi mi fu la bolgia manifesta: 
      e vidivi entro terribile stipa 
di serpenti, e di sì diversa mena 
che la memoria il sangue ancor mi scipa. 
      Più non si vanti Libia con sua rena; 
ché se chelidri, iaculi e faree 
produce, e cencri con anfisibena, 
      né tante pestilenzie né sì ree 
mostrò già mai con tutta l’Etiopia 
né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe. 
      Tra questa cruda e tristissima copia 
correan genti nude e spaventate, 
sanza sperar pertugio o elitropia: 
      con serpi le man dietro avean legate; 
quelle ficcavan per le ren la coda 
e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate. 
      Ed ecco a un ch’era da nostra proda, 
s’avventò un serpente che ’l trafisse 
là dove ’l collo a le spalle s’annoda. 
      Né O sì tosto mai né I si scrisse, 
com’el s’accese e arse, e cener tutto 
convenne che cascando divenisse; 
      e poi che fu a terra sì distrutto, 
la polver si raccolse per sé stessa, 
e ’n quel medesmo ritornò di butto. 
      Così per li gran savi si confessa 
che la fenice more e poi rinasce, 
quando al cinquecentesimo anno appressa; 
      erba né biado in sua vita non pasce, 
ma sol d’incenso lagrime e d’amomo, 
e nardo e mirra son l’ultime fasce. 
      E qual è quel che cade, e non sa como, 
per forza di demon ch’a terra il tira, 
o d’altra oppilazion che lega l’omo, 
      quando si leva, che ’ntorno si mira 
tutto smarrito de la grande angoscia 
ch’elli ha sofferta, e guardando sospira: 
      tal era il peccator levato poscia. 
Oh potenza di Dio, quant’è severa, 
che cotai colpi per vendetta croscia! 
      Lo duca il domandò poi chi ello era; 
per ch’ei rispuose: «Io piovvi di Toscana, 
poco tempo è, in questa gola fiera. 
      Vita bestial mi piacque e non umana, 
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci 
bestia, e Pistoia mi fu degna tana». 
      E io al duca: «Dilli che non mucci, 
e domanda che colpa qua giù ’l pinse; 
ch’io ’l vidi uomo di sangue e di crucci». 
      E ’l peccator, che ’ntese, non s’infinse, 
ma drizzò verso me l’animo e ’l volto, 
e di trista vergogna si dipinse; 
      poi disse: «Più mi duol che tu m’hai colto 
ne la miseria dove tu mi vedi, 
che quando fui de l’altra vita tolto. 
      Io non posso negar quel che tu chiedi; 
in giù son messo tanto perch’io fui 
ladro a la sagrestia d’i belli arredi, 
      e falsamente già fu apposto altrui. 
Ma perché di tal vista tu non godi, 
se mai sarai di fuor da’ luoghi bui, 
      apri li orecchi al mio annunzio, e odi: 
Pistoia in pria d’i Neri si dimagra; 
poi Fiorenza rinova gente e modi. 
      Tragge Marte vapor di Val di Magra 
ch’è di torbidi nuvoli involuto; 
e con tempesta impetuosa e agra 
      sovra Campo Picen fia combattuto; 
ond’ei repente spezzerà la nebbia, 
sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto. 
      E detto l’ho perché doler ti debbia!».
 
 

 
 

 
 
9  
 
 
12 
 
 
15 
 
 
18 
 
 
21 
 
 
24  
 
 
27 
 
 
30 
 
 
33 
 
 
36 
 
 
39  
 
 
42 
 
 
45 
 
 
48 
 
 
51 
 
 
54  
 
 
57 
 
 
60 
 
 
63 
 
 
66 
 
 
69  
 
 
72 
 
 
75 
 
 
78 
 
 
81 
 
 
84  
 
 
87 
 
 
90 
 
 
93 
 
 
96 
 
 
99  
 
 
102 
 
 
105 
 
 
108 
 
 
111 
 
 
114 
 
 
117 
 
 
120 
 
 
123 
 
 
126 
 
 
129 
 
 
132 
 
 
135 
 
 
138 
 
 
141 
 
 
144 
 
 
147 
 
 
 
151

Canto XXV

sabato 9 aprile, verso mezzogiorno. cerchio VIII, bolgia VII: avvolta da un fitto buio: Dante è costretto a scendere lungo l'argine che la recinge per poter scorgere i dannati. Il centauro caco, Agnello Brunelleschi, Cianfa Donati, Buoso Donati, Francesco Cavalcanti, Puccio de' Galigai. ladri: nudi e indifesi, tentano di scappare ai morsi e alle strette di un gran numero di serpenti che cinge il loro corpo, bloccandone le mani; sono spogliati della stessa natura umana per mezzo di orribili trasformazioni.
Comincia il canto vigesimoquinto dello 'Inferno. Nel quale l'autore nella sopradetta bolgia mostra come, veduto Caco, vide certi fiorentini trasformati maravigliosamente in diverse forme
      Al fine de le sue parole il ladro 
le mani alzò con amendue le fiche, 
gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!». 
      Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, 
perch’una li s’avvolse allora al collo, 
come dicesse ’Non vo’ che più diche’; 
      e un’altra a le braccia, e rilegollo, 
ribadendo sé stessa sì dinanzi, 
che non potea con esse dare un crollo. 
      Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi 
d’incenerarti sì che più non duri, 
poi che ’n mal fare il seme tuo avanzi? 
      Per tutt’i cerchi de lo ’nferno scuri 
non vidi spirto in Dio tanto superbo, 
non quel che cadde a Tebe giù da’ muri. 
      El si fuggì che non parlò più verbo; 
e io vidi un centauro pien di rabbia 
venir chiamando: «Ov’è, ov’è l’acerbo?». 
      Maremma non cred’io che tante n’abbia, 
quante bisce elli avea su per la groppa 
infin ove comincia nostra labbia. 
      Sovra le spalle, dietro da la coppa, 
con l’ali aperte li giacea un draco; 
e quello affuoca qualunque s’intoppa. 
      Lo mio maestro disse: «Questi è Caco, 
che sotto ’l sasso di monte Aventino 
di sangue fece spesse volte laco. 
      Non va co’ suoi fratei per un cammino, 
per lo furto che frodolente fece 
del grande armento ch’elli ebbe a vicino; 
      onde cessar le sue opere biece 
sotto la mazza d’Ercule, che forse 
gliene diè cento, e non sentì le diece». 
      Mentre che sì parlava, ed el trascorse 
e tre spiriti venner sotto noi, 
de’ quali né io né ’l duca mio s’accorse, 
      se non quando gridar: «Chi siete voi?»; 
per che nostra novella si ristette, 
e intendemmo pur ad essi poi. 
      Io non li conoscea; ma ei seguette, 
come suol seguitar per alcun caso, 
che l’un nomar un altro convenette, 
      dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»; 
per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento, 
mi puosi ’l dito su dal mento al naso. 
      Se tu se’ or, lettore, a creder lento 
ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia, 
ché io che ’l vidi, a pena il mi consento. 
      Com’io tenea levate in lor le ciglia, 
e un serpente con sei piè si lancia 
dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia. 
      Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia, 
e con li anterior le braccia prese; 
poi li addentò e l’una e l’altra guancia; 
      li diretani a le cosce distese, 
e miseli la coda tra ’mbedue, 
e dietro per le ren sù la ritese. 
      Ellera abbarbicata mai non fue 
ad alber sì, come l’orribil fiera 
per l’altrui membra avviticchiò le sue. 
      Poi s’appiccar, come di calda cera 
fossero stati, e mischiar lor colore, 
né l’un né l’altro già parea quel ch’era: 
      come procede innanzi da l’ardore, 
per lo papiro suso, un color bruno 
che non è nero ancora e ’l bianco more. 
      Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno 
gridava: «Omè, Agnel, come ti muti! 
Vedi che già non se’ né due né uno». 
      Già eran li due capi un divenuti, 
quando n’apparver due figure miste 
in una faccia, ov’eran due perduti. 
      Fersi le braccia due di quattro liste; 
le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso 
divenner membra che non fuor mai viste. 
      Ogne primaio aspetto ivi era casso: 
due e nessun l’imagine perversa 
parea; e tal sen gio con lento passo. 
      Come ’l ramarro sotto la gran fersa 
dei dì canicular, cangiando sepe, 
folgore par se la via attraversa, 
      sì pareva, venendo verso l’epe 
de li altri due, un serpentello acceso, 
livido e nero come gran di pepe; 
      e quella parte onde prima è preso 
nostro alimento, a l’un di lor trafisse; 
poi cadde giuso innanzi lui disteso. 
      Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse; 
anzi, co’ piè fermati, sbadigliava 
pur come sonno o febbre l’assalisse. 
      Elli ’l serpente, e quei lui riguardava; 
l’un per la piaga, e l’altro per la bocca 
fummavan forte, e ’l fummo si scontrava. 
      Taccia Lucano ormai là dove tocca 
del misero Sabello e di Nasidio, 
e attenda a udir quel ch’or si scocca. 
      Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio; 
ché se quello in serpente e quella in fonte 
converte poetando, io non lo ’nvidio; 
      ché due nature mai a fronte a fronte 
non trasmutò sì ch’amendue le forme 
a cambiar lor matera fosser pronte. 
      Insieme si rispuosero a tai norme, 
che ’l serpente la coda in forca fesse, 
e il feruto ristrinse insieme l’orme. 
      Le gambe con le cosce seco stesse 
s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura 
non facea segno alcun che si paresse. 
      Togliea la coda fessa la figura 
che si perdeva là, e la sua pelle 
si facea molle, e quella di là dura. 
      Io vidi intrar le braccia per l’ascelle, 
e i due piè de la fiera, ch’eran corti, 
tanto allungar quanto accorciavan quelle. 
      Poscia li piè di retro, insieme attorti, 
diventaron lo membro che l’uom cela, 
e ’l misero del suo n’avea due porti. 
      Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela 
di color novo, e genera ’l pel suso 
per l’una parte e da l’altra il dipela, 
      l’un si levò e l’altro cadde giuso, 
non torcendo però le lucerne empie, 
sotto le quai ciascun cambiava muso. 
      Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie, 
e di troppa matera ch’in là venne 
uscir li orecchi de le gote scempie; 
      ciò che non corse in dietro e si ritenne 
di quel soverchio, fé naso a la faccia 
e le labbra ingrossò quanto convenne. 
      Quel che giacea, il muso innanzi caccia, 
e li orecchi ritira per la testa 
come face le corna la lumaccia; 
      e la lingua, ch’avea unita e presta 
prima a parlar, si fende, e la forcuta 
ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta. 
      L’anima ch’era fiera divenuta, 
suffolando si fugge per la valle, 
e l’altro dietro a lui parlando sputa. 
      Poscia li volse le novelle spalle, 
e disse a l’altro: «I’ vo’ che Buoso corra, 
com’ho fatt’io, carpon per questo calle». 
      Così vid’io la settima zavorra 
mutare e trasmutare; e qui mi scusi 
la novità se fior la penna abborra. 
      E avvegna che li occhi miei confusi 
fossero alquanto e l’animo smagato, 
non poter quei fuggirsi tanto chiusi, 
      ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato; 
ed era quel che sol, di tre compagni 
che venner prima, non era mutato; 
      l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni.
 
 

 
 

 
 
9  
 
 
12 
 
 
15 
 
 
18 
 
 
21 
 
 
24  
 
 
27 
 
 
30 
 
 
33 
 
 
36 
 
 
39  
 
 
42 
 
 
45 
 
 
48 
 
 
51 
 
 
54  
 
 
57 
 
 
60 
 
 
63 
 
 
66 
 
 
69  
 
 
72 
 
 
75 
 
 
78 
 
 
81 
 
 
84  
 
 
87 
 
 
90 
 
 
93 
 
 
96 
 
 
99  
 
 
102 
 
 
105 
 
 
108 
 
 
111 
 
 
114 
 
 
117 
 
 
120 
 
 
123 
 
 
126 
 
 
129 
 
 
132 
 
 
135 
 
 
138 
 
 
 141
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

Torna Indietro